ll progetto de La Nazione per i lettori di domani

L’amara lotta contro gli stereotipi

«Io sono io». Il viaggio alla scoperta di noi stessi contro ogni forma di indifferenza e discriminazione

LIDO DI CAMAIORE Tutto iniziò alla soglia dei miei dieci anni, l’età in cui il mio corpo iniziò a cambiare. Non capivo, non capivo proprio perché il mio corpo fosse così diverso da quello degli altri maschi. Sentii il bisogno di coprire quelle forme che stavano mutando, quelle verità che si stavano mostrando ma tanto erano estranee. “E’ normale che una ragazza abbia le forme”, “dovresti vestirti più da ragazza e meno da maschiaccio”.

Con il passare del tempo quelle ed altre frasi risuonavano stridendo nella mia vita quotidiana dove, ogni giorno di più, non mi sentivo Barbara ma Filippo, Marco, Luca, una qualsiasi appartenenza maschile ma non femminile, quella proprio no. Io non capivo, e più mi sforzavo di capire più la confusione e il mio stato di ansia aumentavano. Dopo tante sofferenze compresi, era il mio sesso a farmi stare tanto male. Oramai il mio corpo femminile rappresentava una gabbia, un recinto ferreo in cui non vi erano serrature per aprire nessuna porta, nessuna possibilità di uscita. Presi faticosamente coraggio, partii dal nome, il primo dato sulla carta a certificare la mia identità. Iniziai a chiedere ai familiari e alle persone a me più vicine di chiamarmi con un nome che avevo scelto io e che sentivo mio, naturalmente maschile. Finalmente mi sentii più leggero, il mio senso di frustrazione sembrava svanire soprattutto quando qualcuno iniziò davvero a chiamarmi con quel nome. Un’illusione, fu solo una fugace illusione. “Sei una ragazza e per me rimarrai tale”, “non puoi sentirti maschio”, “ti faccio cambiare idea io”, “dai è una fase”. Si rinnovarono le frasi e le prediche per farmi cambiare idea, come se quello fosse un capriccio adolescenziale! Il manifesto all’indifferenza, il male che da sempre fa più male di tanti altri sentimenti. Tutte quelle parole, di apparente interesse, erano per me l’elogio all’indifferenza più totale, un male acuto si rinnovava nel mio cuore. Il colpo finale mi venne inflitto da alcuni familiari, di fatto non direttamente, ma attraverso una serie di considerazioni omofobe che mi capitò di ascoltare negli incontri tra parenti. Banali e offensive battute sulle coppie gay, critiche gratuite sull’identità di persone che, come me, sono nate in un corpo differente da quello che vorrebbero avere.

Quanto dolore quando mia zia espresse i più occasioni il suo disappunto per il modo di vestire, un accanimento continuo…Con tanta sofferenza sono arrivato ad oggi, quattordicenne, con la conquistata soddisfazione di aver raccolto intorno a me persone che, comprendendo la mia natura, la rispettano e la sostengono con amorevole interesse. Alcuni amici, i miei compagni di scuola, i miei genitori.

Io sono io, nella mia lotta all’indifferenza, il fucsia proprio non mi appartiene.

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