ll progetto de La Nazione per i lettori di domani

La testimonianza di una deportata

La nota scrittrice Edith Bruck racconta la propria storia agli studenti di Sinalunga e Torrita di Siena

Edith Bruck è una sopravvissuta alla Shoah che testimonia la sua esperienza nelle scuole da sessant’anni ed ha ricevuto il Premio Strega Giovani nel 2021 per il libro Il pane perduto, dove racconta la sua storia. In occasione di una delle sue testimonianze la scrittrice ha risposto alle domande degli studenti dei Comprensivi di Sinalunga e Torrita, ai quali ha confidato anche le proprie preoccupazioni circa ciò che sta accadendo oggi in Europa e nel mondo. Edith è nata nel 1931 in Ungheria ed è stata deportata prima nel ghetto della cittadina ungherese di Sátoraljaújhely e poi ad Auschwitz.

Qui, appena scaraventata giù dal treno, un soldato tedesco insistette affinché raggiungesse la sorella tra i deportati abili al lavoro e, visto che non si staccava dalla madre, condannata a morte, la colpì con il calcio del fucile. Solo dopo capì che quell’uomo le aveva salvato la vita. Più volte Edith ha rischiato di essere selezionata per le camere a gas dal dottor Mengele, il medico che stabiliva chi poteva vivere o morire e faceva esperimenti sui bambini. Edith racconta che le donne, prima della selezione, per non sembrare deperite, usavano della carta rossa per avvolgere i fiori e si coloravano il viso: attraverso questo ricordo contraddice quello che disse Primo Levi sulla situazione di svantaggio che avrebbero vissuto le donne nei campi rispetto agli uomini, perché secondo lei erano loro in difficoltà in quanto meno abituati a prendersi cura di se stessi. Da Auschwitz Edith è stata trasferita in altri cinque campi: ci parla in particolare di Dachau, dove si è sentita un essere umano per la prima volta dopo tanto tempo grazie a un cuoco che le chiese il nome.

Edith non credeva alle sue orecchie, nei campi era quasi impossibile una domanda del genere, il suo nome era diventato il numero 11152, la persona umana era spogliata anche della propria immagine, infatti lei era calva, con zoccoli ai piedi e una palandrana lunga. È difficile far capire il significato di un gesto del genere, che per lei rappresentò la speranza, la bontà umana, voleva dire che non era tutto perduto. In altri campi ricevette una ciotola con un po’ di marmellata e un guanto bucato: questi gesti, apparentemente insignificanti, erano molto importanti anche se avvenivano sempre in maniera sgarbata, perché i soldati non potevano far vedere che aiutavano un deportato.

Ma è a Bergen-Belsen che si colloca il ricordo più straziante: un campo di cadaveri nudi che le deportate avrebbero dovuto ripulire, come se fossero immondizia, trascinandoli nella “tenda della morte”, un’immensa piramide di corpi senza vita. E proprio qui due moribondi le hanno detto: «Racconta anche per noi, perché non crederanno a tutto questo».

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