Fast fashion e conseguenze Gli impatti sociali e ambientali
Una riflessione delle alunne del centro lunigianese sul consumismo e la moda ’usa e getta’
Ogni giorno siamo invogliati a comprare vestiti ben oltre lo stretto indispensabile. Lo facciamo per schermarci o per apparire, per manifestare la nostra personalità o per omologarci ad una tendenza.
Di questo aspetto il fast fashion, il filone “usa e getta” della moda, è al corrente, propinandoci, vertiginosamente, enormi quantità di capi d’abbigliamento a prezzi irrisori e di scarsa qualità. Il fast fashion, anche senza considerare l’impatto sulla società, come sfruttamento e violazione dei diritti umani (più di 40 milioni di persone e circa il 20% di minori di Paesi in via di sviluppo), ha, però, ricadute allarmanti sull’ambiente.
Ogni anno, soltanto in Europa, circa 5 milioni di tonnellate di abiti e calzature finiscono nel dimenticatoio. Di questi, l’80% viene smaltito nelle discariche o negli inceneritori, contribuendo in maniera significativa all’inquinamento e al sovraccarico dei sistemi di gestione dei rifiuti. Purtroppo, la percentuale di questi materiali che viene effettivamente riciclata è molto bassa. L’industria della moda tallona quella petrolifera in termini di dannosità. A tal proposito, la produzione di tessuti propaga nell’atmosfera 1,2 tonnellate di CO2, più della somma delle emissioni dei trasporti aerei e marittimi. Oltre il 60% delle fibre tessili sono sintetiche e molte, come il poliestere, dopo le prime lavature, rilasciano microplastiche.
Il comparto della moda è sempre più assetato, consumando, a livello mondiale, un quantitativo di 93 miliardi di metri cubi d’acqua, sufficiente a riempire quasi una quarantina di piscine olimpioniche. E ancora, in molti Paesi, dove le normative ambientali sono carenti, il processo di tintura dei tessuti impiega prodotti chimici altamente invasivi, compresi coloranti, fissatori e agenti sbiancanti. Una buona parte di essi finisce nelle acque superficiali e sotterranee, causando danni a lungo termine agli ecosistemi marini e fluviali, oltre ad avere un impatto negativo sul tasso di genuinità delle riserve d’acqua potabile. Che fare, dunque, per mitigare gli effetti del fast fashion? Acquistare in modo responsabile, scegliendo capi di qualità che possano garantire longevità. Privilegiare, se possibile, marchi che rispettino l’ecosistema e la dignità delle persone che hanno prestato un servizio di produzione. Selezionare tessuti naturali. Dare priorità al vintage o trasformare i vecchi capi. Riciclare o donare i vestiti che non si usano più, invece di gettarli via in modo compulsivo. Averli a cuore, consapevoli che ogni piccolo gesto altro non è che un grande gesto!
In Cile si trova uno dei luoghi più torridi del pianeta, il deserto di Atacama. In questa superficie, la pioggia è assente e la temperatura non si abbassa sotto i 5° di notte, raggiungendo, di giorno, picchi di 43°. Purtroppo, tra le dune di sabbia, un cimitero di capi usati disegna un nuovo paesaggio. Ogni giorno, t-shirts, cappellini, scarpe, tute da ginnastica e quant’altro di sintetico, per un totale di 60mila tonnellate, vengono illegalmente accumulati a cielo aperto. Il processo di decomposizione è lungo e faticoso; e, come se non bastasse, qualcuno cerca di sbarazzarsene incendiandolo. Il tasso di tossicità che si libera nell’aria è massimo e ingovernabile e mette a rischio la salute della popolazione. Il viaggio dei vestiti prende avvio in Asia; dopo una sosta in Europa e negli Usa, il grosso del materiale viene accantonato, per sbarcare al porto cileno di Iquique. Qui, le imprese godono di libertà sulle tasse doganali e possono fare affari attraverso la vendita dei pezzi salvabili, mentre, quelli malconci finiscono nelle discariche abusive. Il governo cileno nel 2016 per responsabilizzare i produttori circa il peso ambientale dei prodotti ha posto l’attenzione a varie categorie di rifiuti, ma non ha ancora ultimato quello inerente al tessile. Fortunatamente esistono diverse imprese emergenti che si adoperano al riciclo dei capi che vengono importati nel Paese annualmente, che sia la loro trasformazione in cappotti termici oppure in nuove fibre.
L’articolo di giornale è stato scritto dalle alunne del centro di Pontremoli Anissa e Beki, seguite dal professor Niccolò Degl’Innocenti e dall’educatore Simone Andreozzi.
La direttrice dell’Istituto penitenziario di Pontremoli è la professoressa Francesca Capone; il dirigente scolastico del Cpia di Massa Carrara è il professor Emilio Di Felice. Le allieve si sono documentate sull’ambiente e sui danni al pianeta effettuati dalla moda e dall’abbigliamento, uno dei settori che se la gioca con il petrolio in fatto di inquinamento.