ll progetto de La Nazione per i lettori di domani

Scuola Secondaria I grado Don Milani di Orbetello (GR) - 3A, 3B, 3C

Un Palazzo per i «Giusti» Un gesto di vera nobiltà

Il marchese Afan de Rivera Costaguti salvò una ventina di famiglie ebree dai rastrellamenti

A Roma, nel Palazzo Costaguti, grande palazzo manierista romano, situato all’angolo di piazza Mattei con via della Reginella, nel rione Sant’Angelo, abitavano il marchese Achille Afan de Rivera Costaguti (1904-1988), un avo del quale rivestì le cariche di Vicerè del Regno di Napoli e anche di Governatore dello Stato dei Presìdi, e la moglie Giulia Florio (1909-1989).

Egli è stato protagonista di un atto eroico, in cui ha dimostrato la sua autorità e ha avuto grande coraggio. Al tempo dei rastrellamenti che portavano alla deportazione degli Ebrei nei tristemente noti campi di concentramento e poi di sterminio, il 16 ottobre 1943 il quartiere ebraico fu circondato dai tedeschi che bloccarono tutte le uscite e decine di persone furono prelevate con violenza dalle loro case e «scaraventate» in strada.

Alcuni nella confusione, riuscirono a sfuggire e chiesero aiuto bussando al portone del Palazzo Costaguti, che aveva l’ingresso secondario in un vicolo del ghetto e che la famiglia intenzionalmente aprì.

Alcuni ebrei vennero fatti intrufolare al secondo piano della casa aiutati dal marchese e da sua moglie, altri invece volevano solo passare e uscire poi dal portone principale in Piazza Mattei.

Gli ufficiali nazisti si accorsero che una ventina di famiglie mancavano all’appello, ed era davvero strano perché le loro irruzioni avvenivano all’alba quando c’erano più probabilità di sorprendere tutti a casa e ancora nel sonno e allora controllarono le vie ad una ad una.

La figlia del marchese, Costanza, recentemente scomparsa, ha poi raccontato in un’intervista che un ufficiale nazista bussò con fare deciso al portone del loro palazzo di Piazza Mattei. Suo padre, sapendo che se i soldati delle SS avessero preteso un ispezione della casa tutti, compresa la sua famiglia sarebbero stati arrestati e deportati e sarebbero andati incontro alla morte certa, indossò l’alta uniforme della milizia fascista e con aria disturbata e quasi offesa affrontò il comandante a capo di quella schiera.

Sicuro di quello che stava dicendo riuscì a far girare sui tacchi l’ufficiale per farlo andare via senza fiatare e senza ispezionare il palazzo, usando la scusa di come essi avevano interrotto il suo sonno.

Chi conosce la storia sa quanto il marchese e sua moglie hanno fatto con questo gesto.

I loro nomi oggi sono ricordati nel Giardino dei Giusti a Gerusalemme per aver aperto il proprio palazzo e il proprio cuore e aver salvato sedici famiglie di ebrei, rischiando di perdere la propria la vita.

 

Giulia Florio apparteneva a una famiglia di imprenditori benestanti operanti in Sicilia. Trasferitasi a Roma, conobbe A. Afan De Rivera. Dopo il matrimonio vissero nel palazzo Costaguti, adiacente al ghetto ebraico.

Qui salvarono coraggiosamente alcuni ebrei dal rastrellamento nazista. Nel marzo 1944, Vincenzo Florio, suo zio, e la moglie Lucie vennero arrestati dalle SS per un presunto furto, questi ultimi sospettavano che la coppia avesse rubato gioielli della regina Elena. Le SS rinchiusero la coppia nelle carceri di via Tasso, una prigione rinomata come sinistro luogo di torture. Dopo aver appreso questa terribile notizia, Giulia si adoperò in maniera risoluta per aiutare il suo illustre parente. A tal proposito, si fece accompagnare all’ufficio di Kappler (l’ufficiale nazista responsabile del rastrellamento del ghetto di Roma e dell’eccidio delle Fosse Ardeatine). Giunta da Kappler, costui si dimostrò molto sicuro di sé infatti accolse Giulia con fare arrogante, ma lei sfidò l’ufficia-le con lo sguardo chiedendogli pacatamente se avesse potuto fare qualche telefonata. Giulia chiamò i piloti tedeschi che avevano vinto la Targa Florio (gara automobilistica ideata dallo zio) e anche i vertici delle più importanti case automobilistiche tedesche (Mercedes e Porsche).

Gli interlocutori tedeschi raccomandarono caldamente a Kappler di avere molto riguardo per Don Vincenzo. Lei, audace come una leonessa, chiarì l’equivoco dei gioielli riuscendo così a far scarcerare lo zio e la moglie.

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