Bullismo, quando le parole sono armi Il peso delle relazioni tossiche
Ogni giorno i ragazzi vengono derisi, isolati, umiliati per l’orientamento sessuale o il modo di vestire

In un mondo che si riempie la bocca di parole come «inclusione» E «accettazione» la realtà è ben diversa. Ogni giorno, ragazzi e ragazze vengono derisi, isolati, umiliati per il loro orientamento sessuale, per il modo in cui si vestono, per il semplice fatto di essere diversi da quello che la società impone.
Basta accendere un telefonino per rendersene conto: sotto ogni video di un content creator che racconta le violenze subite, ci sono centinaia di commenti velenosi che lo deridono.
I social, non sono usati per creare connessioni, ma sono spesso usati da ragazzini troppo sicuri di sé o semplicemente annoiati e adulti che li usano come strumenti di tortura. Lo sa bene chi si ritrova bersaglio di insulti per un dettaglio irrilevante: un ragazzo che veste in modo troppo appariscente o «da gay», una ragazza considerata «troppo mascolina».
Ma non è solo il web a essere spietato: la scuola, la strada, le amicizie tossiche diventano campi di battaglia dove la paura di essere giudicati porta molti al mutismo.
La serie «Adolescence», di cui tutti parlano, è riuscita a raccontarlo senza filtri. Non ci sono eroi, solo adolescenti che lottano con il proprio disagio, con relazioni opprimenti, con l’ipocrisia degli adulti che predicano bene ma poi chiudono gli occhi.
La serie ci sbatte in faccia la realtà: il bullismo non è solo fisico, è fatto di parole che si insinuano nella testa e distruggono dall’interno.
Le relazioni tossiche non sono solo quelle tra fidanzati, ma anche tra amici, tra genitori e figli, tra insegnanti e studenti.
Se sei molto attivo nei social, ti sarà sicuramente capitato di vedere un reel in cui qualcuno esprime la sua opinione rivolta a qualcuno spesso anonimo che viene offeso anche solo con un testo. C’è gente che adora far girare il proprio odio per comunità innocue o argomento fragile giustificandolo come «ironia». Internet è pieno di queste persone con account falsi pieni di odio.
E allora, perché non si parla abbastanza di tutto questo? Perché quando si chiede ai ragazzi di raccontarsi, il silenzio vince sempre? La privacy diventa un muro dietro cui nascondere cicatrici invisibili, ma profondissime.
Il cyberbullismo, le discriminazioni, l’omofobia non sono problemi di qualcun altro: sono sotto i nostri occhi, ogni giorno. Non basta indignarsi quando un caso finisce sui giornali. Servono adulti capaci di ascoltare, anziché giudicare.
Perché il silenzio non protegge nessuno. Il silenzio, uccide.
Negli ultimi anni, l’arcobaleno è diventato un simbolo di inclusione e lotta per i diritti LGBT+, ma c’è un fenomeno che sta suscitando preoccupazione: il rainbow washing. Cos’è? Si tratta di un fenomeno in cui brand e aziende utilizzano il simbolo del pride e i colori dell’arcobaleno per fare marketing e quindi guadagnarci parecchio, senza però offrire un reale impegno verso la comunità LGBT+. Il rainbow washing si manifesta in diversi modi: dalle t-shirt con i co-lori del pride vendute senza alcuna donazione a progetti LGBT+, ai loghi arcobaleno sui prodotti, senza che l’azienda crei davvero un ambiente inclusivo.
Alcune aziende, inoltre, operano in Paesi dove i diritti LGBT+ sono negati, senza prendere iniziative per migliorare la situazione.
Si crea così una situazione in cui il supporto alla causa diventa un’arma di marketing, piuttosto che un autentico impegno per i diritti e la parità. Questo fenomeno non solo svuota il significato del Pride, ma rischia di minare la credibilità delle aziende che si approfittano del movimento senza contribuire concretamente.
La comunità LGBT+ merita un supporto genuino, fatto di azioni concrete e politiche aziendali rispettose, non di semplici campagne pubblicitarie. Il vero impegno dovrebbe andare oltre il logo colorato, e dovrebbe essere un impegno quotidiano e autentico, non solo un’occasione in più per i saldi stagionali!
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